L’ascolto nella pratica psicologica ed educativa

Tutte le professioni che lavorano nella relazione, mettono in campo un’implicita responsabilità sull’altro: agire in modo che il lavoro possa produrre dei cambiamenti. Nella psicologia clinica possiamo citare il furor sanandi, traducibile dal latino come passione-apprensione affinché si produca la guarigione nel paziente, passione da cui già Sigmund Freud metteva in guardia i suoi lettori e i suoi allievi. Nella pratica educativa potremo parlare invece di una sorta di furor educandi cioè la passione, di poter portare dei cambiamenti nella vita della persona che deve essere educata. In entrambi i casi abbiamo lo stesso fenomeno: la passione per apportare un cambiamento nell’altro e la responsabilità dell’essere chiamati in prima persona, professionalmente, ad agire affinché si possa produrre nell’altro tale cambiamento. La passione ha alla base una volontà precisa, la volontà di cambiare e di farlo agendo. E’ immediato e intuitivo capire allora come in questa ottica, la responsabilità chiami il professionista ad esercitare il suo ascolto in modo che esso diventi, nel senso vizioso del termine, un conoscere per agire. In tutti i mestieri che hanno a che fare con la cura dell’altro, qualsiasi forma questa cura assuma, la responsabilità per l’altro che il ruolo fa sorgere automaticamente, fa sì che l’ascolto venga sotto-posto alla (nel senso del divenire uno strumento della) necessità di intervenire. Ascoltare quindi non é assunto come fine ma piuttosto diviene un mezzo per la cura. Qui incorriamo in una trappola. Da una parte c’è in gioco una volontà, o un desiderio, da parte di chi vuole portare un cambiamento dell’altro; dall’altra c’è la volontà e il desiderio dell’altro che dovrebbe essere curato. Quasi mai le due cose sono coincidenti e anche se lo fossero non é necessariamente detto che le cose si mettano bene.

Questo succede perché, essenzialmente, assumere l’ascolto come mezzo per arrivare ad un fine, non solo non pone il focus, l’interesse per la parola di chi sta parlando, ma lo bypassa anche come soggetto. L’unico modo per ascoltare una persona é invece ascoltarla senza alcuna volontà di intervento.
Il luogo del soggetto, é la parola, sia nel discorso che egli formula che in quello che dal discorso viene omesso, pur partecipandovi (ma che ha la possibilità di emergere a poco a poco). Non è possibile pensare ad un’altra alternativa. Non si può forzare nessuno a parlare o far parlare di qualcosa di cui la persona non vuole parlare. E’ una violenza agita per un fine (l’intervento) ma non é una forma di ascolto né di rispetto perché la cosa che non é rispettata é proprio la libera scelta della persona, la possibilità di poter dire o di non dire ciò che vuole. Questo punto infatti ci porta dritti a ciò di cui parlavamo all’inizio; bypassare, oltrepassare, il riconoscimento della persona in quanto la si rende oggetto di un intervento. Ascoltarla abdicando a qualsiasi volontà di cambiamento è riconoscerla come soggetto e dunque nella sua piena libertà (di parola e non). Perché l’ascolto sia tale occorre innanzitutto rispettare la sua libertà a non dire, a non voler parlare, o a non voler scegliere quello che l’educatore o lo psicologo vorrebbe che l’altro scegliesse.
Mentre per l’ascolto dello psicologo clinico questa non può che essere la posizione che egli deve riuscire ad incarnare (per questo si dice che la poltrona su cui siede lo psicologo deve essere ben comoda!), questo non esaurisce la posizione dell’essere educatore. Educare non significa lasciare la persona in un’assoluta libertà questo sarebbe una finzione e corrisponderebbe anche ad una posizione anti-etica. Ma quando si ha a che fare con l’ascolto anche nella pratica educativa non si può che sostenere questa posizione, sebbene transitoriamente.

Ed è proprio su questo punto che entra in gioco la parte più difficile: il limite di chi educa, di chi psicologizza ecc.. Il limite che è pure un paradosso: per curare occorre rinunciare ad ogni volontà di cura, perché una persona cammini nella direzione che volgiamo mostrarle occorre confrontarsi quotidianamente con il fatto che l’altro possa scegliere un’altra via (e spesso è così!) e dunque di poterlo perdere. Il limite deve aiutare l’ascolto in quanto non intervento, si deve partire da una posizione di responsabile impotenza, di fronte all’ascolto. Chi vuole ascoltare deve partire dal proprio limite, dal proprio fallimento per tentare di cogliere l’altro in un ascolto autentico. Partire dall’impossibilità della comprensione per fare spazio all’altro in modo che la sua parola possa esistere e che di conseguenza possa esistere come soggetto ed essere riconosciuto come tale.
Far sorgere un ascolto autentico significa fare questa operazione. In questo senso la realtà dell’ascolto autentico è di per sé un atto e già pone il fondamento di qualsiasi relazione di aiuto. Istituire la parola dell’altro nell’ascolto fa sì che chi parla venga riconosciuto come soggetto, che possa ascoltarsi e che possa dar valore a ciò che dice nella libertà e nella possibilità di dirlo.

Ciò pone un problema che riguarda l’utilizzo di tecniche nelle professioni di aiuto. Se la tecnica, se il metodo, si basa e viene applicato proprio sulla base della volontà di cura, la sua applicazione svaluta il ruolo dell’ascolto e lo sotto-pone come un mezzo per permettere l’applicazione di un protocollo che ha come fine la cura. Questo punto problematizza le tecniche cliniche protocollari o le pratiche istituite in generale, anche quelle che si basano su presupposti scientifici (evidence-based).
L’ anima della pratica della cura dell’altro non è l’azione che sorge dalla volontà di cambiamento, né il modellaggio della sua condotta o lo sradicamento dei suoi sintomi e delle sue cattive abitudini. Essa semmai coincide con l’ascolto del cuore parlante (e pulsante) del soggetto, di cui quest’ultimo parlando, può sorprendersi nel cogliersi sempre più vivo e più sconosciuto di quello che precedentemente non avrebbe pensato.

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