
Non sei quello che gli altri
dicono di te.
Non sei
gli errori che hai fatto
né sei
precisa come una parola o come un giudizio.
Tu non sei neppure la tua voce
né i tuoi pensieri che ti infastidiscono
o ti proteggono.
Non sei le cose che sai sul mondo
né quelle che in passato ti hanno fatto ridere
o ti hanno fatto disperare.
Non sei un corpo, una costante:
sei un cambiamento continuo.
Non hai un colore definito:
sei nella sfumatura
tra il rosso e il blu del cielo colorato
dal tramonto.
Non sei altro che una stupida variazione
in ciò che è uguale un semplice “non”,
una differenza che cambia tutto.
Non sei una nota ma l’effetto che si crea
quando esse scorrono
in una melodia, quando passano
l’una all’altra.
Non sei una verità, ma stai fra
l’incontestabile e la finzione.
Non sei neppure un oggetto:
anche se quel che appare di te
è profondamente tuo,
tu non ti esaurisci profondamente
soltanto ciò.
Sfuggi sempre,
cambi
soffri, odi, ami, vedi, dormi, sogni,
ammiri, desideri,
menti, giochi,
scrivi, ardi..
E ti meravigli di fronte alla natura,
ad un tramonto,
al mare
perché capisci
la bellezza,
perché ne conosci il significato inesprimibile.
E come essa sfuggi sempre,
come sfugge il tenue odore di glicine
quando fiorisce nei giardini
a primavera,
come sfugge al tempo il ricordo di un sogno,
come sfugge
l’estate, la giovinezza,
il sole quando all’orizzonte
si avvicina.
Carezzi il nulla,
sei una forma impensata,
un concetto unico
irraggiungibile
che è tutto.
Sei disperatamente leggera,
un alito, un soffio,
poco più di un vuoto,
uno stralcio di tempo che rende al mondo
in uno sguardo meraviglioso
un universo inesplorabile,
segreto e silenzioso:
il tuo.
Non sei altro che tutto ciò.
Non sei altro
che la bellezza che è in te;
presente e viva,
eppure, ineffabile.
Riflessione
Siamo affannati spesso alla ricerca di un identità, in cerca di modelli con cui identificarsi, chiusi in un continuo “poter-essere”, in un progetto instancabile, vertiginoso e molte volte inconcludente.
Siamo continuamente preoccupati di come gli altri ci vedano, se andiamo bene o se ci comportiamo come “si deve'”.
In genere la nostra immagine ce la trasciniamo appresso con grande fatica, e della sua cura se ne è fatto pure un mestiere.
Se rigettiamo quella che ci vogliamo cucire addosso ci sentiamo spogliati e non ci chiediamo se sia giusto o meno quel che stiamo facendo.
Portarsi dietro questo senso di sé così articolato può divenire una fatica tremenda e ci fa allontanare da ciò che conta davvero dentro di noi e dentro agli altri.
Viviamo in genere in un sistema articolato di alienazioni, in un labirinto degli specchi.
E mentre cerchiamo spaesati un briciolo di verità distogliamo lo sguardo dalle poche azioni davvero importanti.
L’essenziale è invisibile agli occhi?
Può non essere vero.
Quel che è vero è che ciò che siamo è veramente molto più leggero di tutto il nostro affanno.
Alla fine basterebbe sedersi in silenzio e ascoltarsi, non specchiarsi, non vedere un’immagine, ma ascoltare la voce che siamo; la voce che ride, canta, pensa e dice qualcosa su di noi, una voce che è stata e che sarà, che non è mai un qualcosa ma scivolando continuamente incessantemente parla.
Quella voce è lui, è me.
